Approfondimento: Navi, schiavi, merci

La Tratta Dei Neri:
La schiavitù come istituzione è stata alla base dell’economia di tutte le civiltà antiche, ed è un fenomeno di lunghissima durata; in Europa scomparve solo verso l’VIII secolo d.C. (peraltro, anche in seguito mercanti europei commerciavano in schiavi con l’Africa islamizzata); in altre regioni, molto più tardi; si ritiene addirittura che ancora oggi non si possa considerarla definitivamente eliminata.
La tratta dei neri che si sviluppò tra il XV e il XVIII secolo a opera delle Nazioni Occidentali, tuttavia, si distingue per almeno tre fondamentali caratteristiche. Anzitutto essa ha rappresentato un elemento essenziale del processo di colonizzazione del continente americano e, su scala più ampia, della costruzione di quel vasto sistema di relazioni economiche internazionali controllate da un piccolo nucleo di Nazioni europee, fondamentale per lo sviluppo della moderna economia capitalistica. In secondo luogo, la tratta ha messo in gioco il sistema di valori ispirato al cristianesimo, svelando bruscamente la contraddizione tra questi valori e gli interessi del modello politico ed economico che si andava affermando. E ancora, ha provocato un esteso e violento rimescolamento etnico e culturale, che ha modificato radicalmente la realtà sociale di diversi paesi, soprattutto nell’America Latina, dando il via ad uno dei capitoli più controversi che la storia moderna conosca: la multietnicità.

Pur essendo un fenomeno che ha radici antiche, in quanto vengono riportate testimonianze di schiavi neri, oltre che in Egitto, in Grecia e nella Roma repubblicana e imperiale, dove tuttavia la maggior parte degli schiavi apparteneva ad altre etnie, i primi tentativi di organizzare una vera e propria tratta si devono all’infante del Portogallo Enrico il Navigatore; questi fece costruire un forte nell’isola di Arguin, che ben presto divenne il centro degli scambi coi mori. Le loro carovane dirette in Marocco compivano una deviazione, portando ai portoghesi oro e schiavi neri. Ben presto si giunse a esportare all’incirca 800 schiavi all’anno, i quali venivano scambiati con cavalli, grano, tele e sete.

L’epoca della tratta propriamente detta ebbe effettivo inizio con la colonizzazione delle Americhe. Dopo una prima fase tumultuosa e non sistematica di spoliazione del continente, nel corso del XVII secolo si sviluppò un’organizzazione stabile dell’economia coloniale, basata su un intenso sfruttamento della manodopera, dapprima per l’estrazione dei metalli preziosi, e poi per il lavoro agricolo nei vasti latifondi dei conquistatori; ma le violenze commesse durante le guerre di conquista, l’estenuante ritmo di lavoro, come anche le malattie importate dagli europei, decimarono nettamente la popolazione indigena. Contestualmente venne effettuata la colonizzazione del Nord America. Nell’area nordorientale delle colonie inglesi, da cui i nativi erano stati espulsi o sterminati, prevalevano la piccola e la media proprietà terriera, spesso a conduzione familiare, ed era presente un’importante comunità quacchera, contraria eticamente alla pratica schiavista, per cui l’impiego degli schiavi fu estremamente limitato; nell’area meridionale, come in quella del golfo del Messico, invece, furono create numerose grandi aziende analoghe a quelle dell’America Latina. Nel XVIII secolo, e in misura ancora maggiore in quello successivo, in Europa crebbe la domanda dei cosiddetti prodotti coloniali – caffè, cacao, zucchero e tabacco – il cui consumo divenne una moda che dalle corti si diffuse tra la borghesia (la bottega del caffè di goldoniana memoria divenne un centro di trattative commerciali e di dibattito politico, filosofico e artistico, il vero cuore della nascente società borghese nelle capitali europee. Si affermò così in America Latina e nel sud dei futuri Stati Uniti il sistema della piantagioni: si trattava di una grande azienda agricola specializzata nella coltivazione di un unico prodotto destinato all’esportazione. Nella seconda metà del Settecento, in concomitanza all’inizio della rivoluzione industriale, crebbe la richiesta di cotone per le nascenti industrie tessili. La conseguente esigenza di ulteriore manodopera a basso costo, non specializzata perché destinata ad un lavoro tanto semplice quanto ripetitivo, robusta e abituata al clima tropicale, essenziale al buon funzionamento del sistema delle piantagioni, inaugurò l’epoca della grande tratta, che divenne progressivamente sistematica, ed interessò le maggiori compagnie commerciali dell’Europa.

Per comprendere al meglio il fenomeno rimando ad una rapida lettura di un articolo da me precedentemente scritto sul mercantilismo, in quanto una visione globale su quella che era la storia economia del periodo permette di analizzare compiutamente, e senza alcun margine di errore, le cause della crescita di quello che viene ancora oggi ricordato come uno dei momenti più bui che il genere umano abbia mai vissuto. Lo sviluppo della moderna economia capitalistica in età preindustriale era basata soprattutto sul commercio internazionale, attività che attirava i maggiori investimenti e la tutela dei sovrani. La politica perorata dai mercantilisti era legata a un sistema di commerci coloniali. Le colonie rivelavano in tal senso una duplice utilità: erano una fonte di materie prime a basso costo e un mercato per la vendita dei manufatti, che compensava la scarsa capacità di acquisto del mercato europeo, dove lo sviluppo di consumi di massa era limitato dalla povertà diffusa, dai bassi salari e dalla sopravvivenza del circuito di scambio non monetario.

Si sviluppò in tale contesto il sistema del commercio triangolare, un percorso che univa Europa, Africa e America descrivendo una specie di triangolo che aveva i suoi vertici nelle coste occidentali dell’Europa e dell’Africa, e in quelle atlantiche dell’America. Ed è proprio lungo questo percorso specifico che muovevano le navi della tratta: partendo dai porti spagnoli, portoghesi, olandesi, inglesi e francesi, esse attraccavano lungo le coste del golfo di Guinea; qui scambiavano prodotti europei – armi, tessuti, liquori, utensili – con schiavi, poi ripartivano per l’America, dove gli schiavi erano rivenduti e le navi caricavano prodotti agricoli (coltivati da altri schiavi) destinati ai mercati dell’Europa. Questo tipo di attività richiedeva forti investimenti e presentava alti rischi, come i naufragi, gli assalti corsari, gli ammutinamenti, ma al contempo garantiva altissimi profitti. In questa dinamica la figura dello schiavo africano rappresentava un elemento essenziale: il suo acquisto non costava molto, poiché in Africa il valore dei manufatti scambiati superava di parecchio quello che avevano sul mercato europeo, dato che gli africani non erano in grado di produrli. In presenza di così elevati interessi economici, si può facilmente comprendere come lo schiavismo e la tratta siano sopravvissuti così a lungo all’ondata di critiche che si levarono dapprima da pensatori isolati e poi, sotto la spinta e l’impulso del pensiero illuministico, da schiere vere e proprie di intellettuali, uomini politici, giornalisti e associazioni; e se la Convenzione rivoluzionaria abolirà nel 1794 la schiavitù in Francia e nelle sue colonie, questa sarà ripristinata da Napoleone nel 1804. La battaglia abolizionista si compirà nei Paesi occidentali solo dopo la metà del XIX secolo.

Non più esseri umani, ma oggetti di scambio
Da citare in tal senso l’osservazione espressa dallo scrittore afro-americano Leroy Jones, il quale, analizzando la condizione sociale e psicologica degli africani trasformati improvvisamente in oggetti e trapiantati in una realtà del tutto sconosciuto, osservò: “Un africano fatto schiavo da africani, o se vogliamo un bianco occidentale fatto schiavo da un altro bianco occidentale rimane pur sempre un essere umano, Per i romani gli schiavi erano gente del volgo, oppure vinti senza diritto di cittadinanza. I greci pensavano ai loro schiavi come a gente sfortunata cui non era toccato in sorte di soddisfare intelletto e desideri. Invece gli africani, tanto sventurati da trovarsi su veloci velieri diretti verso il Nuovo Mondo, non era nemmeno concesso di far parte della razza umana. Fra padrone e schiavo non c’era comunicazione a livello umano, c’era solo il rapporto che si ha con un oggetto che si possiede; giri la manopola di una radio e ti aspetti che emetta dei suoni”. Nell’Africa pre-coloniale esistevano regni e imperi dotati di vasti territori, strutture politico-amministrative discretamente complesse e forti eserciti (ad esempio, i Regni del Ghana e del Mali); in questi Stati, la schiavitù era una pratica normale.
In caso di carestia accadeva sovente che i genitori vendessero i figli per procurarsi viveri. I debiti non saldati potevano rendere schiavo il debitore. Alcuni crimini venivano puniti con la riduzione in schiavitù. La guerra lasciava dei prigionieri che spesso venivano ridotti in schiavitù. E ancora, i figli degli schiavi nascevano schiavi. I negrieri si inserirono in questo sistema già rodato come clienti di sovrani e di capi villaggio, per i quali le merci offerte rappresentavano uno stimolo fortissimo a trasformare la pratica dell’asservimento in esportazione e a incrementarla. E’ certo che l’accrescimento della domanda esterna e l’attrazione esercitata dai prodotti europei amplificarono smisuratamente le cause della schiavitù.

L’organizzazione della tratta
La regione africana che maggiormente si trovò coinvolta all’interno di questo fenomeno fu senza dubbio quella compresa tra la foce del fiume Senegal e il golfo di Benguela; la seconda per importanza si trovava invece nell’oceano Indiano, fra il Mozambico portoghese e l’isola di Madagascar. Qui gli Stati europei e le grandi compagnie costruirono dei veri e propri depositi fortificati dove gli schiavi acquistati dai trafficanti africani venivano raccolti e poi spediti a destinazione o rivenduti ad altre compagnie negriere. C’era poi il metodo del mercato fisso: l’agente della compagnia europea contrattava direttamente con il re, nella capitale, ed era questi a far raccogliere e consegnare gli schiavi. Infine le ditte minori, per evitare il ricarico praticato dalle maggiori nei propri depositi, potevano ricorrere alla pratica della tratta volante: la nave negriera costeggiava facendo frequenti soste per acquistare pochi schiavi per volta nei villaggi costieri, fino a completare il carico. Prima della contrattazione il medico di bordo della nave esaminava i prigionieri; a contrattazione ultimata, questi venivano marchiati a fuoco e imprigionati in stive appositamente attrezzate.
Alex Haley, nel suo romanzo Radici, descrive al meglio le condizioni di questi viaggi volti al trasporto di questi esseri umani verso l’America: “Pian piano, si tastò il polso e la caviglia destra stretti da un cerchio di ferro. Sanguinavano. Tirò leggermente la catena; doveva esser collegata al polso e alla caviglia sinistra dell’uomo con il quale poco prima aveva lottato. Alla sua sinistra era disteso un uomo incatenato a lui per le caviglie, che gemeva di continuo. Stavano così stretti che al minimo movimento si urtavano a vicenda. Con più cautela Kunta cercò allora di sollevarsi, ma non c’era nemmeno lo spazio sufficiente per stare seduto.Ascoltò invece le grida e i lamenti che gli risuonavano intorno. Dovevano esserci molti uomini lì con lui, nell’oscurità: alcuni vicini, altri un po’ più lontani, ma tutti in un’unica stanza, se era una stanza. Aguzzando le orecchie percepì altre voci, attutite, provenienti dal basso: da sotto il tavolino viscido sul quale era disteso”. Si può comprendere con facilità il motivo per cui le rivolte dei prigionieri fossero destinate a fallire quasi sempre.

L’annientamento culturale: spunti di riflessione
La vendita ai piantatori, simbolicamente, significava la fine della propria vita da essere umano libero, il preludio ad un’esistenza quantomeno mortificante, contrassegnata esclusivamente dalla denutrizione, dal lavoro portato all’estremo, dalla violenza di padroni e sorveglianti. Nelle piantagioni statunitensi, la separazione fra padroni e schiavi e il processo di annientamento culturale e psicologico furono ancor più radicali che in America Latina, dove elementi propri della cultura africana sopravvivono ancora oggi in misura maggiore nel culto e nell’arte. La schiavitù comportava l’azzeramento di tutto ciò che formava l’identità dell’africano asservito. Alle esigenze economiche del padrone, per il quale lo schiavo era solo una macchina da sfruttare fino all’esaurimento e da comprare e rivendere senza alcun riguardo per i suoi legami familiari e le sue necessità fisiche e spirituali, si accompagnava un deliberato e voluto sradicamento dalla sua cultura d’origine, considerata inferiore, e dai suoi riti pagani. A tale sradicamento non corrispondeva comunque la possibilità di accedere alla religione e alla cultura del padrone, troppo al di sopra, e che gli vennero a lungo precluse. Tale condotta veniva giustificata anche dalla nitida volontà dei bianchi di mantenere i propri sottoposti in un clima di totale ignoranza, in quanto un individuo senza identità, né storia, né religione, è privo di energia interiore, e si ribella perciò più difficilmente.
La legislazione sanciva questa condizione subumana degli schiavi. Ne è buon esempio il Code Noir promulgato nel 1685 in Francia e rimasto in vigore fino al XIX secolo. Esso proibiva agli schiavi la pratica di ogni religione diversa da quella cattolica, apostolica e romana; senza autorizzazione del padrone, lo schiavo non poteva sposarsi, né possedere o comprare merci, né portare alcun tipo di arma d’offesa; le pene per i tentativi di fuga andavano dall’amputazione alla morte. Peraltro, quelle poche e mal dettagliate norme finalizzate alla minima tutela dello schiavo nei suoi più elementari diritti, compresi il riposo domenicale e la fornitura di razioni quotidiane di cibo, erano spesso e senza conseguenza violate dai padroni, senza alcuna remora. Tuttavia, nonostante condizioni così ostili, gli schiavi conquistarono col tempo un sia pur limitato accesso alla lingua e alla cultura dei padroni, grazie anche all’aiuto di individui e gruppi che nella società bianca si opponevano con forza alla schiavitù (come la già precedentemente citata comunità religiosa dei quaccheri, numerosa nella colonia inglese della Pennsylvania). Attraverso un lento e doloroso processo di adattamento, queste masse di individui non più africani e non ancora americani o latino-americani riuscirono a creare una cultura originale, trasferendo nella lingua e nelle forme artistiche di civiltà totalmente estranee e ostili la propria esperienza umana e quanto riuscivano a conservare delle proprie radici culturali. Questo patrimonio, tuttavia, potrà esser condiviso appieno solo dopo la fine effettiva della schiavitù così intesa.

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